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Le legioni maledette. L'epica storia dei sopravvissuti di Canne

All’alba del 2 agosto anno 216 ottantamila legionari e alleati italici, schierati come un enorme maglio con i manipoli distribuiti in uno spazio ristretto, disposti in colonna con un fronte di cinque soldati e trenta di profondità, avanzarono contro l’esercito di Annibale Barca, in inferiorità numerica, nella piana di Canne. Procedettero obliquamente, con il fiume Aufidus sulla destra. I consoli Emilio Paolo e Varrone erano certi di poter replicare la spinta irresistibile che aveva evitato una disfatta al Trebbia, l’anno precedente, battaglia che fu vinta da Annibale ma solo grazie alla cavalleria e non fu decisiva perché la fanteria pesante romana era stata in grado di spezzare la linea di battaglia cartaginese e mettersi in salvo in buon ordine.



Anche Annibale è consapevole della superiorità della fanteria romana ma è deciso a sfruttarla a suo vantaggio. La disposizione flessibile del suo schieramento è un’opera d’arte della storia militare. La spinta dei romani, questa volta, non si troverà di fronte un ostacolo solido da poter sfondare, ma un muro di gomma che accoglierà il nemico, si adatterà al peso specifico di quell’enorme massa di guerrieri e si modificherà per avvolgerlo in una morsa stritolante. Fu proprio ciò che avvenne e, in uno spazio che non superava il chilometro quadrato, Roma e i suoi Socii persero l’equivalente delle vittime statunitensi in Vietnam in una sola giornata.



Quarantacinque mila morti, quasi diecimila prigionieri. Fra questi un console, Emilio Paolo, due questori, ventinove tribuni, ottanta senatori o aspiranti tali (tutti volontari, giusto per farci comprendere il diverso approccio delle classi dirigenti del passato ai problemi dello Stato!). Si è detto di tutto, si è scritto per secoli su questo scontro che ha davvero lasciato una traccia indelebile nella storia dell’umanità. Basta nominare Canne per inquadrare un intero periodo storico o, almeno, un nome: Annibale, assurto fra gli immortali della Storia. Non è della battaglia, però, che parleremo. La nostra storia inizia nel pomeriggio di quel giorno, quando la vittoria aveva ormai arriso ai cartaginesi.

Il console Varrone si era salvato fuggendo con un pugno di cavalieri verso Canusium (Canosa). Sul campo, a gruppi più o meno compatti, i sopravvissuti si diressero verso i due accampamenti costruiti sulle opposte sponde dell'Aufidus. Per quanto sia stata dura la mattanza dobbiamo infatti tenere conto che le forze di Annibale erano troppo esigue per poter accerchiare ermeticamente le legioni, e in alcuni punti i manipoli poterono liberarsi facilmente dalla morsa e ripiegare. Nella confusione che si diffuse nei campi prevalse la voce di un tribuno, Publio Sempronio Tuditano, che sollecitò gli uomini a non abbandonarsi alla disperazione.


“Preferite dunque essere catturati dal più avido e dal più crudele dei nemici? Preferite che sia pronunciato un prezzo per il vostro corpo e che si cerchi di sapere quanto vale il vostro riscatto […]?” (Livio, XXII 50, 10)


Con una formazione a cuneo uscirono dall’accampamento piccolo, si diressero verso il maggiore dove è presumibile – per le cifre di cui parlerò fra poco – che la gran parte degli uomini che erano stati lasciati di guardia si unirono a loro. Questa forza mista, romani e alleati, di hastati, principi, triarii e veliti si diresse, compatta, verso Canosa, la città più vicina. Erano diecimila, e le fonti riportano solo sporadici attacchi da parte di piccoli gruppi di cavalleggeri numidi. Giunti presso gli alleati furono accolti con benevolenza, rifocillati e riarmati. Una donna, di nome Busa, illustre per nascita e patrimonio, fu la più prodiga. In questa occasione i tribuni si riunirono per decidere il da farsi ma una fazione, guidata da un nobile di nome Lucio Cecilio Metello, propose di lasciare l’Italia e la Res Publica, ormai condannate, e mettersi al soldo di qualche re orientale come mercenari. Fu un giovane tribuno, Publio Cornelio Scipione – proprio lui, il futuro vincitore di Zama – a rimettere in riga i facinorosi (Livio, XXII, 53, 2) ma ormai il danno, come vedremo, era fatto. L’ombra del tradimento marchiò non solo Metello e i suoi ma l’intero contingente. Le ripercussioni saranno pesantissime.


Busto di Publio Cornelio Scipione

Contemporaneamente a questi fatti il console Varrone, che Canosa l’aveva solo sfiorata e si era fermato a Venusium (Venosa) venne raggiunto da circa quattromila fra fanti e cavalieri, tutti dispersi sin dalle prime ore dopo la battaglia. Quando alcuni messi inviati da Scipione, proclamato dai sopravvissuti a ruolo di comandante, raggiunsero il console, questi riunì le due forze. Quattordicimila uomini ancora in grado di combattere fu quanto Roma si ritrovò dopo il disastro.

Nonostante la gravità della situazione, i sopravvissuti di Canne – le legioni che verranno da quel momento citate come Cannenses – divennero il capro espiatorio dell’intera vicenda. Il senato, riavutosi dalla notizia, ordinò l’immediata ricostruzione di un’adeguata forza armata. Secondo Livio si arrivò ad arruolare i giovani con un anno di anticipo, mettendo insieme quattro legioni e mille cavalieri. Furono inviati ambasciatori presso tutti gli alleati per anticipare l’invio dei contingenti previsti dagli accordi, furono liberati ottomila giovani schiavi e armati con le spoglie di guerra dei nemici battuti negli anni passati. Quest’ultimo provvedimento contrastò con la più economica soluzione di riscattare i circa seimila prigionieri che Annibale era disposto a cedere per una cifra non esagerata. L’onta della sconfitta era troppo alta, l’onore dello Stato troppo coinvolto, perché vi fosse pietà nei confronti di chi aveva perduto una così disastrosa battaglia. I prigionieri, rispose sdegnato il senato, non erano più cittadini desiderati e fu vietato alle famiglie di provvedere in maniera privata alla liberazione dei congiunti. Annibale vendette come schiavi in Oriente gli sventurati e solo poche centinaia verranno ritrovati e liberati nel 197 a.C., dopo la guerra contro Filippo di Macedonia.


Lo stesso impietoso odio colpì chi era sfuggito alla morte e alla cattura. L’anno successivo, ossia nel marzo 215, nelle varie disposizioni operative gli ordini per i sopravvissuti di Canne erano di seguire il pretore Appio Claudio Pulcro in Sicilia, avvicendarsi con le legioni ivi presenti che sarebbero state spostate nel teatro degli scontri nel sud d’Italia. Le due legioni di sopravvissuti, la Quinta e la Sesta, non sarebbero state congedate, né avrebbero messo piede sul suolo italico, fino alla fine della guerra. Questo era quanto il senato aveva decretato. Inoltre, non avrebbero dovuto prendere parte attiva agli scontri di una certa importanza, né avrebbero ricevuto alcuna paga e sarebbero sopravvissute con i rifornimenti forniti dallo Stato. Non avrebbero svernato nelle città e i loro accampamenti non potevano essere collocati a meno di dieci miglia da alcun centro abitato. Un esilio e un servizio continuativo infamante era quanto spettava alle legioni chiamate, da quel momento in poi, Cannenses, colpevoli di essere sopravvissute alla debacle. Livio ci descrive i termini della punizione nel dettaglio nel Libro XXIV 18, 9. La destinazione, inoltre, era stata decisa in base alla paventata idea di lasciare l’Italia, ventilata da Metello e pochi altri ma ingiustamente addebitata all’intero contingente. Difficile credere che all’alba di quel disastro più di diecimila uomini si fossero accordati per dare man forte alla follia di Metello. Vittime delle circostanze, avrebbero seguito il più carismatico, che si rivelò essere Scipione.



Per due anni non si hanno notizie di questi uomini. Possiamo immaginare il lento protrarsi della vita negli accampamenti, lontani dalle famiglie, costretti in quella sorta di monotona prigionia fatta di routine militare priva di effettiva utilità. I pretori inviati a comandare le due legioni fanno svolgere marce, mantengono gli uomini in forma, ma mentre in Italia si gioca la partita mortale loro non hanno il permesso di intervenire. Nel 213 sono sotto il comando del pretore Publio Lentulo. Questi concede a una loro delegazione di parlare con Claudio Marcello, il console in carica nonché l’uomo che era riuscito a battere Annibale a Nola; una scaramuccia, ma il morale dei romani era ritornato alto dopo quel fatto. Marcello è un guerriero esperto, un veterano della guerra contro i Galli. È anche l’ultimo generale romano a ottenere la Spolia Opima, la massima onorificenza possibile che spettava a colui che avesse sconfitto e ucciso un comandante avversario in duello. Lui aveva ucciso in corpo a corpo Viridomaro, il capo degli Insubri, a Clastidum nel 222. Marcello era l’uomo più influente da un punto di vista militare, pari per fama a Quinto Fabio Massimo il Tentennatore. La petizione dei reduci è riportata da Livio e non manca certo una buona dose di inventiva e retorica. In sintesi, gli uomini si lamentarono del trattamento subito, comprensibile nel momento della disfatta ma reiterato con eccessiva crudeltà. Chiesero di combattere, di essere utili. Si appellarono a Marcello perché intercedesse per loro in senato. Per la prima volta nella storia di Roma i soldati hanno nel loro comandante un punto di riferimento che va oltre la semplice conduzione in guerra: qui si tratta di un precedente storico incredibile, che anticipa di quasi cento anni quello che la riforma di Mario, agli inizi del I secolo a.C. renderà prassi. Privati dei loro diritti di cittadini, i soldati di Canne pregano perché il condottiero interceda per loro.


Non solum a patria procul Italiaque sed ab hoste etiam relegati sumus

Non solo lontano dalla patria e dall’Italia siamo stati relegati, ma anche dal nemico. (Livio XXV, 6, 50)

Marcello rinvia la decisione al senato, ma deve aver perorato la causa, perché i padri della patria risposero che poteva, a sua discrezione, utilizzare quegli uomini indegni. Era però tassativo che nessuno di loro ricevesse decorazioni, né licenze e soprattutto nessuno fosse ricondotto in Italia. Nel brano l’anonimo portavoce menziona più volte Siracusa e i combattimenti intorno alla grande città. Marcello li condurrà proprio lì.


Agli inizi della Guerra Annibalica Siracusa era alleata di Roma, ma alla morte del leale re Ierone II subentrò il nipote Ieronimo, appena quindicenne, che ruppe l’alleanza e si unì ad Annibale. Anche se una cospirazione riuscì a eliminare il giovane re, il partito anti-romano aveva ormai in pugno la città, e due tiranni filo-punici salirono al potere: Ippocrate e Epicide. La risposta romana non era tardata, e già nel 214 i primi scontri si accesero nei territori circostanti e sul mare, dove la flotta cartaginese perse ben presto ogni possibilità di fornire supporto a causa della potente marina romana. Le legioni Cannenses parteciparono all’assalto del 212 e alla conquista della città nonché a numerose operazioni di assedio lungo tutto il territorio del regno siracusano. Nonostante la vittoria finale, ancora non c’era alcuna prospettiva di perdono. Le due legioni continuarono a rimanere mobilitate e in esilio. Ce lo conferma sempre Livio (libro XXVI, 28, 1) che ci ricorda che mentre gli eserciti di Sicilia furono smobilitati, le due legioni di Canne rimasero di presidio sotto la guida del pretore Lucio Cincio.


I legionari delle Cannenses divennero specialisti degli assalti

Nel 209 a.C. ecco un’altra occasione. Questa volta è Plutarco a raccontarla, nella sua Vita di Fabio Massimo (22,1). L’assedio di Taranto del 209 a.C. richiese l’invio di forze aggiuntive. Dalle legioni maledette fu prelevato un contingente di mille uomini che partecipò al colpo di mano decisivo. Come ricompensa, nello stesso anno, i censori decretarono che i cavalieri delle due Cannenses perdessero il privilegio del cavallo pubblico e fossero “degradati” dal loro livello sociale, il più prestigioso, a quello di semplici erarii, alla base della scala sociale romana. Un’onta che si erano già visti addossare negli anni passati. Molti di loro erano divenuti, a tutti gli effetti, poco più che semplici fanti, con equipaggiamento raffazzonato, tra l’altro. Eppure, essi non si ribellarono mai, nemmeno quando altri combattenti, tutti provenienti dai contingenti degli alleati italici di stanza in Sicilia, protestarono vivamente per le condizioni del servizio e dodici colonie di diritto e cittadinanza romana rifiutarono di inviare le forze richieste. In tutto questo le Cannenses sono menzionate come metro di misura: nessuno voleva fare la loro fine, impegnate in un servizio militare prolungato come ci ricorda Livio in XXVII, 9,1.



La vita militare isolata, continuativa e, come ha sottolineato Brunt, sotto certi aspetti ancora operativa a dispetto di quello che l’annalistica ci tramanda, con toni sicuramente esagerati, caratterizza questi legionari. I soldati delle legioni sopravvissute a Canne divennero dei professionisti a tutti gli effetti, scissi dalla società civile, dei veri e propri militari a vita. Il loro servizio prolungato non aveva precedenti nella storia di Roma, e sebbene sia sempre azzardato fare paragoni, per esempio perché essi erano obbligati a tale servizio senza una vera data di congedo, se uniamo questo aspetto a quello dell’affidarsi in toto al comandante in carica e non al senato come avrebbero fatto i cittadini di quell’epoca, si può affermare che furono il prototipo del soldato professionale degli eserciti da Mario in poi. Dobbiamo inoltre prendere atto di una trasformazione che per forza di cose doveva essere avvenuta nella struttura di queste legioni. Per meglio comprendere questa modifica occorre avere bene in mente come erano strutturati gli eserciti del periodo.


Conosciamo la struttura di una legione romana grazie alla descrizione di due autori: Polibio, che scriveva nel 160 a.C., cinquanta anni dopo la Seconda Guerra Punica e Livio che ci ha lasciato un resoconto distante nel tempo tre secoli. Entrambi, però, forniscono dettagli congruenti fra loro e possono, con le dovute cautele, essere utilizzati con buona verosimiglianza per comprendere l’assetto di una legione. L’evoluzione della guerra a Roma seguì le fasi classiche fino allo schieramento oplitico, ossia all’inizio semplici bande armate al seguito degli aristocratici a cavallo, poi gruppi più coesi e infine, grazie agli influssi greci e etruschi, avvenne l’introduzione del concetto di muro di scudi ellenico. Da qui, però, Roma compì un altro passo evolutivo. Durante le guerre contro i Sanniti (343-290 a.C.) le asperità del terreno e le tattiche del nemico resero obsolete le grandi unità compatte. Non fu un cambiamento immediato, poco alla volta si prese a spezzare la lunga linea di battaglia, compatta e poco manovrabile, in unità più agevoli da utilizzare in battaglia gli armati. In quel tempo gli opliti romani erano già suddivisi per censo e si differenziavano fra loro per equipaggiamento: dovendo ognuno provvedere al proprio equipaggiamento non c’era una vera e propria uniformità. Schierati in falange le differenze di utilizzo erano poche: i meglio equipaggiati di fronte e al centro, con le fila che divenivano sempre più armate alla leggera verso il retro e coloro che non avevano panoplia adatta per affrontare lo scontro diretto agivano come fanteria leggera. Con l’introduzione dei manipoli, però, queste differenze divennero sostanziali. Livio e Polibio ci raccontano di velites, hastati, principes e triarii. Livio menziona anche rorarii e accensi, una formazione armata alla leggera i primi e forse niente più che servitori i secondi se vogliamo fidarci della definizione etimologica di Marco Terenzio Varrone nel suo De lingua latina (VII, 57-58). I velites erano schermagliatori, equipaggiati alla leggera e dotati di più pila da lanciare contro le formazioni analoghe avversarie. L'utilizzo di truppe armate con armi da getto quali frombole e giavellotti è antichissima ma come corpo ben codificato è molto probabile che si sia sviluppato nelle forme a noi note durante la guerra contro Annibale. La fanteria vera e propria era divisa in tre diverse unità sia per esperienza che per posizione sul campo. Gli hastati erano nei manipoli di prima linea, i principes nella seconda e i triarii, come dice il nome, nella terza. Gli autori ci narrano che era sia l’equipaggiamento che l’esperienza sul campo a decretare la posizione, con la prima linea composta di unità alle prime armi e i triarii veterani fino al midollo ma, essendo la panoplia a spese del legionario, era possibile avere hastati pesantemente corazzati pur con pochissima esperienza di guerra. Di fatto combattere portava esperienza e ricchezza e quindi era un sistema quasi naturale quello che vedeva i giovani freschi di reclutamento iniziare in prima linea per poi concludere i sei anni della ferma regolare fra i triarii. Allo stesso modo quando venivano indetti leve straordinarie se eventuali triarii caduti in disgrazia fossero stati nuovamente arruolati avrebbero combattuto dove l’esperienza li avrebbe collocati ma con un armamento più leggero dei propri compagni di manipolo. L’uniformità delle belle tavole illustrate è, quindi, una forzatura grafica. L’esercito romano, come qualsiasi altro esercito del mondo impegnato in combattimento, non aveva una categorica e rigida uniformità fra linee di battaglia.


Hastatus, vēles, triario e princeps

Dopo questa premessa veniamo al punto. Le legioni Cannenses furono costrette a un servizio continuativo, privo di stipendio e senza alcun contatto con le proprie famiglie sul suolo italico. Non è possibile immaginare che, a seguito di tutti gli anni d'esilio, all’interno delle legioni fossero ancora ben riconoscibili hastati, principes e così via. Non avevano mezzi per poter mantenere pro-tempore il proprio equipaggiamento e di sicuro il senato non autorizzò mai l'invio di materiale bellico a queste truppe. Come ci ricorda Livio i sopravvissuti della battaglia furono armati e vestiti dai cittadini di Canosium, all’indomani della sconfitta e proprio quelle armi portarono con sé, alle quali aggiunsero prede di guerra cartaginesi, siracusane e sicule nel corso degli anni. Con tale difformità di armamento, isolati dal resto del mondo ma, come abbiamo visto, ancora impiegati in battaglia i legionari maledetti dovettero per forza sviluppare uno spirito comunitario forte, paragonabile alle formazioni di Mario, Silla, Cesare e tutti i grandi condottieri fino alla fine dell’impero. Non erano più così divisi, distinti ma uniti in gruppi di combattimenti, che possiamo ancora chiamare manipoli ma dovevano per forza di cose assomigliare più alle coorti del secolo successivo, complementari fra loro. Il senato, involontariamente, aveva creato il primo esercito professionale della storia romana.


Nel 209 i combattimenti in Sicilia sono terminati ma il destino non ha ancora terminato con le Cannenses. Con la fine delle attività militari c’è ancora una parte da recitare per loro. Sarà Publio Cornelio Scipione a dare una speranze alla legioni maledette. Nel 205, divenuto console nonostante l’età e il cursus non l’avrebbero normalmente permesso, convinse il senato a lasciargli guidare la lotta ad Annibale in Africa. Il senato acconsentì formalmente ma non autorizzò lo spostamento di legioni canoniche. Le uniche che mise a disposizione di Scipione furono le Cannenses. Il giovane condottiero aveva compreso l’enorme opportunità che aveva di fronte: quegli uomini li conosceva perché era stato tribuno durante la disfatta di Canne e sapeva, da esperto soldato, che non erano certo colpevoli assoluti della sconfitta. I soldati di Canne si affidarono a lui, gettandosi letteralmente ai suoi piedi. E Scipione


“Et Scipio minime id genus militum aspernabatur, ut qui neque ad Cannas ignavia eorum cladem acceptam sciret neque ullos aeque veteres milites in exercitu romano esse expertosque non variis poeliis modo sed urbibus etiam oppugnandis”


“E Scipione dal canto suo non disprezzava affatto quel genere di soldati, perché sapeva bene sia che la disfatta di Canne non era da imputare alla loro vigliaccheria sia che l’esercito romano non disponeva di altri soldati di tale esperienza, ben allenati a ogni tipo di battaglia e soprattutto nell’attaccare le città” (Livio XXIX 24, 11-13)



Di fine intelletto e acume, Scipione considerò la loro professionalità acquisita in undici anni di servizio continuativo una forza che si aggiungeva alla voglia di riscatto. Questo promise loro, e quando infine, con un esercito da lui raccolto praticamente a titolo privato, sbarcò in Africa e sconfisse Annibale nella battaglia di Zama (202 a.C.) i veterani delle Cannenses si comportarono in maniera decisiva, resistendo agli attacchi al centro mentre Scipione, con la cavalleria e reparti di fanteria preparati allo scopo, ripagava Annibale con la sua stessa tattica dell’accerchiamento.

Finalmente di ritorno a casa, i veterani vennero stanziati in Apulia, nei pressi di Brindisi. La loro posizione non doveva però essere ancora chiara perché nel 200 a.C., quando il console Publio Sulpicio Galba fu incaricato di partire per la Grecia e combattere contro il re macedone Filippo V, che aveva aiutato Annibale durante la guerra e ora minacciava la Lega Achea alleata di Roma, egli arruolò i veterani della guerra in Africa, le Cannenses appunto, non ancora congedati. I veterani, visto il protrarsi delle operazioni, nel 197 a.C. si riunirono di nuovo fra loro e decisero di porre fine a quel tormento. Erano sul punto di ribellarsi ma, per la seconda volta, intervenne il comandante di turno e non il senato. Fu promesso loro da Flaminino, il console in quel momento in carica, che un ultimo servizio con onore avrebbe finalmente portato ciò che tanto desideravano. Una sola battaglia, Cinocefale come oggi la chiamiamo, li separava dal congedo.



Durante lo scontro contro la falange di Filippo V venti manipoli di legionari, guidati da un coraggioso tribuno rimasto anonimo, effettuarono una manovra di aggiramento perfetta, qualcosa che solo chi aveva visto Annibale e Scipione in azione poteva emulare con tanta competenza. Erano loro? Nessuna fonte lo dice chiaramente, ma sappiamo che quella battaglia pose fine alle sofferenze dei legionari maledetti. Allora sì, voglio crederci. Per me furono loro a lanciarsi nell’ultimo assalto, a vincere su ogni rancore, a conquistare la libertà agognata. Dopo venti anni la maledizione era infranta, i sopravvissuti ricevettero terra (non molta, in verità, perché il senato non li aveva mai davvero perdonati) in Apulia e nel Sannio. La loro vicenda si conclude proprio in quella regione dove tutto era iniziato. Lì, finalmente, la Storia li sorpassò, lasciandoli alla meritata pace tanto faticosamente conquistata.


Bibliografia minima.


Tito Livio, Storia di Roma dalla fondazione, Newton Compton, 1997.

Polibio, Storie Bur, 1993.

Marco Terenzio Varrone, De lingua latina libro VI, R. Patron, 19789

P.A. Brunt, Classi e conflitti sociali nella Roma repubblicana, Laterza, 1972.

H. Scullard, Storia del mondio romano Vol I, Rizzoli, 1992.






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