«...sei italiani equipaggiati con materiali di costo irrisorio hanno fatto vacillare l'equilibrio militare in Mediterraneo a vantaggio dell'Asse.» (Winston Churchill)
Questi sei uomini, con il solo ausilio delle loro forze e di alcuni ritrovati tecnologici di incredibile concezione ma drammaticamente primitivi e soggetti a persisitenti malfunzionamenti che a improvvisi guasti, compirono una mirabolante impresa che fece fremere di rabbia e ammirazione la forza navale più forte del mondo, quella dell’impero britannico. Erano volontari nel corpo di assaltatori subacquei conosciuto come Decima Flottiglia Mas (dall’acronimo Motoscafo Armato S.V.A.N. - Società Veneziana Automobili Nautiche che venne quasi subito reinterpretato come Motoscafo Anti-Sommergibile o Motoscafo Armato Silurante e, successivamente, nel motto reso celebre da D'Annunzio: Memento Audere Semper). Si trattava di un nucleo operativo speciale, nato durante la Prima Guerra Mondiale, rimasto sempre alle dipendenze della Regia Marina Militare. I suoi operatori erano addestrati ad agire di notte, in acqua; a forzare le difese dei porti militari e applicare cariche esplosive sotto il ventre delle navi bersaglio.
Operavano in piccoli gruppi che mai superarono i dieci elementi, solitamente suddivisi in coppie a bordo di piccoli natanti esplosivi (che lanciavano contro il fianco delle imbarcazioni tuffandosi poco prima dell’impatto) o a dorso di siluri a lenta corsa gergalmente chiamati maiali, con i quali, dotati di tute da immersione quanto più comode la tecnologia dell’epoca poteva permettere, si immergevano nelle buie acque portuali per raggiungere le carene da minare.
Presso Alessandria d’Egitto era dislocata la Flotta Mediterranea delle forze Alleate, reduce dagli scontri con la Marina Militare italiana nel prezioso tratto di mare che separa l’Europa dalle coste dell’Africa Settentrionale, luogo degli scontri conosciuti come “La guerra del deserto” fra l’Asse e gli Alleati.
Nella notte tra il 18 e 19 Dicembre del 1941, il sottomarino Sciré, comandato da Juno Valerio Borghese in persona si portò al limite della linea difensiva del porto, composta da mine galleggianti dove liberò dagli ancoraggi posti sulle fiancate, i tre siluri SLC con i quali gli incursori si avvicinarono silenziosi come fantasmi ai loro obiettivi: la corazzata ammiraglia Queen Elisabeth e la gemella Valiant, un terzo bersaglio, scelto d’opportunità sul momento fu la grande nave cisterna norvegese Sagona. Quest'ultimo bastimento non era un obiettivo primario ma l'equipaggio Marmellotta-Marino, a bordo del maiale 222 si ritrovarono costretti a un'emersione d'emergenza a seguito di un malore di Marmellotta. Ormai troppo distanti dalle navi principali non sprecarono l'opportunità di attaccare ugualmente una nave di grandi dimensioni. Marmellotta non fu l'unico a svenire a causa del malfunzionamento dei respiratori e delle difficoltà intrinseche all'impresa primo fra tutti la difficoltà di operare in acque gelide di notte. Bianchi, in coppia con De la Penne, svenne a più riprese e infine fu costretto a emergere prima di raggiungere la nave assegnata. Si aggrappò a una boa e lì venne trovato dagli inglesi. De la Penne riuscì da solo a agganciare la carica alla carena della Valiant. Le difficoltà per gli assaltatori non terminarono con l'applicazione degli esplosivi, la parte più complessa doveva ancora venire: fuggire sia dalle esplosioni imminenti che dalla sorveglianza nemica, allarmata dalle manovre di emersione e dai rumori provocati nell'ancorare le cariche alle paratie. Uno a uno gli incursori vennero catturati, nessuno escluso. De la Penne appena riemerse, Bianchi poco dopo, semi congelato e imbrigliato alla boa che l'aveva salvato. Antonio Marceglia e Spartaco Schergat, l'unico equipaggio a compiere la missione "perfetta" minarono la Queen Elizabeth e uscirono dalla rada non visti. Furono catturati tentando di attuare il piano di fuga previsto dal Servizio Informazioni Militare che li aveva forniti di denaro fuori corso. Non potendo impiegare la somma per pagare un trasporto civile egiziano vennero catturati il giorno dopo.
Alle 05.58 esplose la carica posta sotto la nave cisterna e la deflagrazione investì il cacciatorpediniere Jervis, il cui equipaggio si salvò perché de la Penne, catturato, avvisò (all’ultimo momento, pur essendo stato rinchiuso chiuso nel ventre della nave da lui stesso minata) degli intenti del raid e della necessità di evacuare le navi. Alle 06.05 seguì la deflagrazione che danneggiò seriamente la Valiant, anche in questo caso non vi furono perdite umane. L’ultima detonazione avvenne alle 06.16, sulla Queen Elisabeth che riportò danni gravissimi e otto marinai uccisi.
In totale il raid costò alla Marina di sua maestà:
- due corazzate gravemente danneggiate - una petroliera danneggiata - un cacciatorpediniere danneggiato - otto morti.
All'alba del 19la flotta italiana si trovava in netta superiorità rispetto a quella britannica, a cui non era rimasta operativa alcuna corazzata. Un vantaggio che non venne però sfruttato anche perché le navi, adagiate sul fondo ma non ribaltatesi, furono lasciate attrezzate per ingannare i ricognitori. A bordo la vita proseguì come se nulla fosse e in parte questo stratagemma funzionò.
Al di là dei risultati sul lungo termine resta il fatto che in una solo notte sei uomini fecero più danni dell’intera flotta italiana dall’inizio della guerra, guadagnandosi un prestigio e un rispetto che ancora oggi è parte integrante della storia degli eredi moderni della MAS, gli incursori del COMSUBIN. Come scrisse il guardiamarina Wade, testimone oculare: “Pensavamo che la marina italiana fosse antiquata e inefficiente ma dovemmo ricrederci di fronte al coraggio e l’ingegno dei suoi uomini”.
Un successo incredibile frutto dell’addestramento, della volontà di ferro e del coraggio.
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