Il combattente normanno, una perfetta combinazione tra antichi valori e nuove tattiche di battaglia
I cavalieri normanni arrivarono nel meridione d’Italia come mercenari, predoni, avventurieri. La definizione che danno di sé stessi è milites ma erano ben attenti ai distinguo del caso: c’erano i milites castri, i milites minores, quelli egregii, quelli nobiles e nobilissimi. Milites, nel XI secolo, non significa ancora nobile, non distingueva una élite aristocratica ben definita ma manteneva tutta l’accezione guerresca della parola derivata dall’antichità anche se traslata dalla fanteria alla cavalleria.
I milites erano i combattenti per eccellenza, i guerrieri il cui primo dovere era l’ubbidienza al capo se subordinati, mostrarsi valorosi e combattere con coraggio in ogni caso. Erano cavalieri nel senso più stretto del termine. Non sentivano propri valori diversi da quelli della forza e del coraggio, non proteggevano gli umili, le vedove, gli orfani se non come slanci privati e personali, estemporanei gesti che non possono essere ricondotti a una morale condivisa, da una percezione di un dovere superiore, magari non sempre seguito alla lettera ma pur sempre codificato. No, è ancora presto per questo: i normanni erano cavalieri nell’atto di guerreggiare a cavallo, non portavano con loro alcun valore superiore. Inoltre, la nobiltà, per questi uomini, non risiedeva ancora nella potenza della famiglia d’origine, nel sangue, nella stirpe. Era un atto nuovo, da costruire ogni giorno e affermare tramite imprese che poggiavano sul ferro delle loro armi e della loro volontà. La capacità del singolo individuo di farsi capo e guidare la propria ascesa e quella dei seguaci era determinante e senza vincoli precedenti l’impresa.
Dopo averli combattuti, inutilmente, la Chiesa li elevò a difensori dei propri interessi non riuscendo affatto a placare gli animi ardimentosi di questi avventurieri, abili nella politica come con la spada. Anzi, al contrario, ne legittimò pretese ancora più straordinarie. Anche Boemondo non mancò mai di cercare l’approvazione e l’appoggio della Chiesa. Contro gli infedeli, gli scismatici, i nemici comuni in ogni luogo la sua impressionante ambizione seppe condurlo.
Boemondo I (1051/1058 - 1111 d.C.) figlio di Roberto il Guiscardo e di Alberada di Buonalbergo, alla morte del celebre genitore avvenuta nel 1085 costrinse il fratello minore Ruggero, erede della contea di Puglia, a cedergli Bari e Taranto. Fu solo l'inizio di un'incredibile carriera politica e militare.
Personalità caleidoscopica, delle sue mille sfaccettature ne ho scelte alcune che ritengo in grado di raccontarlo, almeno in parte, mostrandone l'indole indomita, il fascino e la sfrenata ambizione.
La descrizione di Anna Comnena, figlia del basilues Alexio I
« Ora [Boemondo] era uno, per dirla in breve, di cui non s'era visto prima uguale nella terra dei Romani, fosse barbaro o Greco (perché egli, agli occhi dello spettatore, era una meraviglia, e la sua reputazione era terrorizzante). Lasciate che io descriva l'aspetto del barbaro più accuratamente: egli era tanto alto di statura che sopravanzava il più alto di quasi un cubito, sottile di vita e di fianchi, con spalle ampie, torace possente e braccia poderose. Nel complesso il fisico non era né troppo magro né troppo sovrappeso, ma perfettamente proporzionato e, si potrebbe dire, costruito conformemente ai canoni di Policleto... La sua pelle in tutto il corpo era bianchissima, e in volto il bianco era temperato dal rosso. I suoi capelli erano biondastri, ma egli non li teneva sciolti fino alla vita come quelli di altri barbari, visto che l'uomo non era smodatamente vanitoso per la sua capigliatura e la tagliava corta all'altezza delle orecchie. Che la sua barba fosse rossiccia, o d'un altro colore che non saprei descrivere, il rasoio vi era passato con grande accuratezza, sì da lasciare il volto più levigato del gesso... I suoi occhi azzurri indicavano spirito elevato e dignità; e il suo naso e le narici ispiravano liberamente; il suo torace corrispondeva alle sue narici e queste narici... all'ampiezza del suo torace. Poiché attraverso le sue narici la natura aveva dato libero passaggio all'elevato spirito che gli traboccava dal cuore. Un indiscutibile fascino emanava da quest'uomo ma esso era parzialmente contrassegnato da un'aria di terribilità... Era così fatto di intelligenza e corporeità che coraggio e passione innalzavano le loro creste nel suo intimo ed entrambi lo rendevano incline alla guerra. Il suo ingegno era multiforme, scaltro e capace di trovare una via di fuga in ogni emergenza. Nella conversazione era ben informato e le risposte che dava erano fortemente inconfutabili. Quest’uomo del tutto simile all’Imperatore per valore e carattere era inferiore a lui solo per fortuna, eloquenza e per qualche altro dono di natura.
[...]Un indiscutibile fascino emanava da quest'uomo ma esso era parzialmente contrassegnato da un'aria di terribilità...»
Crociato
Nell’agosto dell’anno 1096 Boemondo era impegnato insieme al fratello Ruggero nell’assedio di Amalfi quando li raggiunse la notizia dell’arrivo dei primi, nobili, cruce signati nelle terre d’Apulia. Ugo di Vermandois, Roberto il Cortacoscia, duca di Normandia, Etienne di Chartres e molti altri, con il loro numeroso seguito di guerrieri e pellegrini.
Alcuni storici moderni concordano che Boemondo non fosse, come tutti i potenti d’Europa d’altro canto, all’oscuro del movimento innescato a Clermont da papa Urbano II. Piuttosto, è probabile che da fine stratega avesse atteso il maturare degli eventi prima di prendere una decisione al riguardo. Il sud d’Italia incominciava ad andargli stretto e, come vedremo nei prossimi giorni, il fascino dell’Oriente l’aveva irretito completamente, divenendo ossessione per tutta la sua vita. Dopo aver partecipato alla campagna di suo padre, Roberto il Guiscardo, in Epiro e Tracia una decina di anni prima la sua brama di conquista non si era certo placata.
Seppe però giocare bene le sue carte, dimostrando a tutti il carisma e il fascino da leader di cui era naturalmente dotato. Con gesto plateale sciolse il suo mantello davanti all’esercito schierato sotto Amalfi, lo fece a pezzi con la spada. I brandelli di stoffa divennero croci: la prima la fissò lui stesso al braccio destro. Seguirono i guerrieri del suo seguito personale e poi, a cascata, centinaia di altri cavalieri molti dei quali di Ruggero (che dovette annullare l’assedio, rimasto senza forze sufficienti).
Gli stessi cronisti del tempo, per esempio Guglielmo di Malmesbury, videro la convenziona politica dietro l’apparente fervore religioso. Di nuovo si offriva a Boemondo di portare la guerra verso territori ricchissimi e sciolti dalle trame viscose dell’Europa cristiana. Un terreno fertile nel quale un uomo dotato di intelligenza e di volontà poteva farsi largo in maniera spettacolare.
Andarono con lui cinquecento milites, settemila pedites, un manipolo di sodali ambiziosi quanto lei ma fedeli e devoti, tra i quali Tancredi d’Altavilla, figlio di sua sorella Emma, Riccardo e Rainolfo di Salerno, Honfroi di Montescaglioso, il vescovo Gerardo di Ariano. Svelto Boemondo attraversò l’Adriatico, sbarcando a Dropoli, poco distante dalla “fatale” Durazzo. Il Boatus Mundi era pronto a far tremare l’Oriente!
Principe di Antiochia
Il 21 ottobre 1097 le armate cristiane iniziano il lungo assedio della città dove Saulo, il futuro san Paolo, per primo definì come “cristiani” i seguaci di Gesù: Antiochia la splendente. La Theoùpolis, la città di Dio, per il numero elevato di chiese contenute nel suo territorio, era difesa da una possente cinta muraria, quattrocento torri e una cittadella praticamente imprendibile. Era una città splendida, ricostruita dopo il terremoto devastante del 526 dopo Cristo fu adornata di piazze, giardini, un ippodromo, bagni pubblici e fontane. Era una preda magnifica che faceva gola ai capi della spedizione quanto all’ultimo dei tafuri al loro seguito. Un saccheggio avrebbe arricchito tutti.
Raimondo di Tolosa propose subito l’assalto generale ma Boemondo si oppose con forza. Voleva fare sua Antiochia e per questo era deciso a risparmiare il devastante saccheggio che sarebbe seguito alla conquista con la forza -le consuetudine della guerra del tempo non avrebbero concesso alcuna clemenza alla città che rifiutava di arrendersi pacificamente-.
Ottenuto lo stallo di cui aveva bisogno, Boemondo cominciò a pensare a un sistema per impadronirsi della città e intanto perora la sua causa tra gli altri comandanti. Per far questo, si spense in ogni istante: organizzò una vasta razzia nei territori limitrofi quando le scorte iniziarono a scarseggiare. Fermò una diserzione di massa guidata dallo stesso Pietro l’Eremita (il predicatore di quella a noi nota come crociata dei pezzenti, fallimentare spedizione che anticipò il movimento crociato nel 1095) e punì il leader laico dei facinorosi, Guglielmo il Carpentiere, umiliandolo in maniera pubblica. Nel frattempo, alcune scaramucce con i difensori aprirono la via per i primi contatti.
Nel frattempo, la situazione dei cristiani si stava facendo disperata. L’emiro di Mosul, Qawam ad-dawla Kerbuqà, a noi noto come Kerbogha, aveva allestito un possente esercito per soccorrere Antiochia spazzando via l’armata nemica. Boemondo strappò agli altri comandanti la promessa di lasciare a lui la città, una volta presa, a patto che fosse il primo a mettervi piede. Il normanno era in una posizione di forza, in effetti: aveva appena guidato la vittoria contro gli emiri di Aleppo e Hama, inoltre, se aveva in mente un piano, era ora di metterlo in atto perché non si poteva più ritardare la conquista, pena il fallimento completo della spedizione.
In quei giorni Boemondo era riuscito a entrare in contatto con un armeno di nome Firuz, comandante della guarnigione (presumibilmente armena anch’essa) di presidio lungo il tratto di mura che faceva capo alla torre detta “delle due sorelle”. Lo convinse, in cambio di una sostanziosa ricompensa, a lasciar poggiare delle scale lungo la parete da lui difesa. Così avvenne e il vessillo di Boemondo fu il primo a svettare sulla città, di lì a poche ore tutta nelle mani dei cristiani fatta eccezione per la cittadella.
Kerbogha arrivò il giorno seguente e strinse d’assedio Antiochia. La situazione era migliorata di poco: se negli accampamenti la sconfitta sarebbe stata certa, trovarsi dentro una città ancora prostrata dal lungo assedio subito stava solo procrastinando l’inevitabile. Ancora una volta è Boemondo a volgere la drammatica situazione a favore della spedizione. Organizzò tutti gli uomini in grado di combattere in sei distaccamenti più uno di riserva e una volta schierati all’esterno delle mura, li mandò all’attacco in successione. La tattica permise di mettere a frutto l’enorme potenzialità della cavalleria pesante europea senza disperderla in un solo attacco ma garantendo una continuità di impatti devastanti che sfaldarono le linee turche e portarono alla vittoria.
Antiochia era, adesso, nelle salde mani di Boemondo. Uno scambio di lettere avvelenate sancì la rottura definitiva dei rapporti con l’imperatore dei romani, Alexio Comneno, che pretendeva la restituzione della città come da accordi presi quando i capi crociati erano a Costantinopoli. Boemondo rispose picche, adducendo anche alcuni motivi validi (ma un po’ forzati). Difficilmente, in ogni caso, avrebbe mai potuto rispettare qualsiasi patto riguardo Antiochia. La “crociata”, per lui, terminava proprio lì dove l sua smisurata ambizione l’aveva condotto. Ma non erano certo finite, le sue avventure!
Prigioniero
Boemondo di Taranto, signore di Antiochia, è uno dei personaggi più roboanti della storia medievale. Indomito, orgoglioso, affamato di terre e ricchezze ma anche colto, conoscitore dei testi classici e capace di parlare la lingua dei nemici della cristianità: l'arabo. Lo apprese durante il periodo in cui fu tenuto da prigioniero dai danishmend a Niksar, nel Ponto.
Come fu catturato dei danishmend?
Nell'anno 1100 d.C. Gümüştekin Danishmend Ahmed Ghazi, emiro danishmend, scatenò il suo esercito contro la città cilicia di Melitene oggi Malatya. Gli armeni che la controllavano erano alleati di Boemondo e a lui si rivolsero per domandare aiuto. Il principe di Antiochia, in quel momento, era a corto di uomini ma si mosse lo stesso verso nord, immaginando di poter piombare inatteso sul nemico e sconfiggerlo, estendendo così la sua influenza fino all'Anatolia centrale.
Non volendo lasciare troppo sguarnita Antiochia, prese con sé 300 cavalieri e un contingente di fanti poco più numeroso e nell'agosto di quell'anno partì verso settentrione. Di per sé l'irruenza dei guerrieri franco-normanni era ancora un'arma capace di vincere battaglie in totale svantaggio numerico ma stavolta Boemondo aveva osato troppo. Infatti, lo scarso numero di uomini non gli permise di predisporre un adeguato sistema di esplorazione durante la marcia. Finì così che le sue forze vennero avvistate anzitempo e attese da Ghazi predisponendo un’efficace imboscata nei pressi della città. Fu un massacro completo. Tra i pochissimi prigionieri vi fu appunto Boemondo che fu portato a Niksar dove rimase finché non gli riuscì di pagare il proprio riscatto. L'entità del riscatto, chi lo abbia raccolta e portato a Niksar, sono oggetti di dibattito ancora attuali. Il reggente armeno Kogh Vasil, Baldovino di Edessa, Boemondo stesso? Il governatore greco della Chaldia, Taronites? Non c'è alcuna certezza. Tra l'altro, sembra che lo stesso imperatore romano Alexio Comneno si fosse offerto di pagare la somma pretesa da Gazi (260.000 dinar) ma per avere a sua volta Boemondo come prigioniero, visto che l'uomo gli aveva letteralmente usurpato il controllo di Antiochia.
Misteri della storia. Ad ogni modo, quella di Melitene fu la prima sconfitta seria di un contingente crociato, e questa è storia.
Il ritorno
Nel 1104 la situazione di Beomondo principe di Antiochia si era fatta drammatica. La sconfitta subita per mano del nuovo emiro di Mossul (Kerbogha era morto nel 1102), Cekermish, l’aveva posto in uno stato d’assedio dal quale non aveva speranze di salvarsi senza domandare aiuto in Europa.
L’imperatore Alexio Comneno, infatti, non gli aveva mai perdonato l’affronto di aver tenuto la città di Antiochia per sé stesso, facendone la capitale di uno dei quattro storici regni d’outremer. Le sue flotte, guidate da alcuni abili generali ma, soprattutto, galvanizzate dallo stato di prostrazione nel quale versava il normanno, avevano ripreso il controllo di importanti porti mentre sulla terra ferma il generale Monastras era riuscito a riportare sotto il dominio imperiale le città di Adana, Tarso, Mamistra. Circondato dai turchi nell’entroterra e dai romani lungo le coste, il principe normanno chiamò a consiglio i suoi vassalli. Decise di lasciare a Tancredi la reggenza e partire per incontrare sia il papa che il re di Francia, dai quali si aspettava sostanziosi aiuti. Il problema del viaggio, però, non era certo da poco: come fare a passare attraverso la sorveglianza dei sudditi di Alexio senza venire denunciato, inseguito e fatalmente catturato? Il blocco navale era serrato e particolarmente efficace. Non c’era nave che non potesse essere intercettata. Boemondo escogitò un astuto piano. Fece diffondere la notizia della sua morte, in lungo e in largo. Poi preparò una bireme listandola a lutto. Vele nere e neri drappi ne ornavano ogni punto, così da rendere evidente lo status della nave. Vi si imbarcò avendo cura di alloggiarvi a bordo una bara di legno, dentro la quale si sarebbe chiuso ogni volta che le autorità imperiali avessero voluto verificare la veridicità della sua morte. Per rendere ancora più credibile l’inganno un gallo morto fu nascosto in un pertugio dentro la cassa. Il puzzo della decomposizione funzionò alla grande. Ogni volta che la nave attraccava i compagni di viaggio si mostravano nel pieno del dolore, piangendo, strillando e strappandosi i capelli.
“Appena giunto a Corfù, il morto lasciò la sua cassa crogiolandosi la sole, respirando a pieni polmoni aria pura, passeggiando per le strade…” racconta Anna Comnena.
Giunto in patria con questo brillante escamotage si impegnò a fondo per reclutare un’armata da condurre con sé. L’obiettivo, però, non era condurla presso Antiochia per rinforzare la città ma di portare la guerra nel territorio del suo rivale di sempre: il basilues Alexio. Di questa avvincente, e purtroppo per lui ultima, avventura racconto nel dettaglio nel mio romanzo “Il canto della vendetta”, il terzo e conclusivo capitolo della saga Il Giglio e il Grifone.
La passione per le tende da campo
Stando a quanto si può evincere dalle fonti, Boemondo aveva un amore smisurato per le tende da campo. Non i padiglioni spartani della truppa, ovviamente, ma i ricchissimi padiglioni mobili sotto i quali i suoi numerosi condottieri avversari, siano essi turchi, armeni o romani orientali, dimoravano durante le campagne militari o i lunghi viaggi. Tra le sue prede vi furono quella di Alexio Comneno, presa a Durazzo nel 1081 alla quale più tardi si aggiunse quella di Qilij Arslan catturata a Dorileo nel 1097.
La più notevole, però, fu senza dubbio quella dell’emiro di Mossul, Qawam Ad-Dawla Kerbuqà, più semplicemente Kerbogha, predata dopo la battaglia vinta dai crociati davanti le mura di Antiochia, il 28 giugno del 1098. Si trattava di una tenda enorme, sotto la quale potevano trovare posto duemila persone, divisa in quartieri e fiancheggiata da torri (La parola tenda ci fa pensare a tutto meno che a una simile struttura ma dobbiamo pensarla come qualcosa simile al tendone di un moderno circo).
Ci viene descritta nella Chanson d’Antioche, dalla quale traggo questi coloriti dettagli della mirabolante struttura:
“Il suo aspetto era tale che non v’era alcuno che v’entrasse senza timore.”
“Vi stanno a loro agio diecimila cavalieri, o dodicimila a stretta di gomito.”
“Le corde erano di seta, i ganci d’argento e splendidamente intessuti i tappeti sul pavimento, che occupa lo spazio di una giornata di marcia (eheheh, ok, ora il cronista sta proprio esagerando direi!)”
Chiaramente iperbolica, come descrizione, ma rende bene l’idea di quanto mirabile potesse essere la tenda dell’emiro. Boemondo la inviò a Bari, insieme a una lettera scritta di suo pugno per il papa. Il tendaggio potrebbe essere stato poi preso dal re di Sicilia Ruggero II insieme a altre spoliazioni durante il soffocamento della rivolta del 1132. Una cronaca ci informa che nel novembre 1160, a Palermo, scoppiarono dei moti che portarono all’assalto del palazzo reale. Durante il tumulto vennero distrutti il grande mappamondo d’argento ispirato dagli studi del geografo El-Idrisi e una tenda preziosissima capace di contenere sotto le sue volte duecentocinquanta persone. Sembrerebbe proprio il padiglione di Kherboga!
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